Giancarlo Senatore: un focus sull’innovazione nel settore pubblico

L’innovazione nel settore pubblico spesso sembra più limitata rispetto al settore privato, e ciò è dovuto a diversi fattori.

In primo luogo, nel contesto pubblico, manca spesso l’incentivo ad assumersi il rischio di promuovere l’innovazione e ciò si traduce in una cultura respingente verso questo concetto. Inoltre, quando qualcuno se ne assume il rischio, decidendo di incentivarla, può incontrare difficoltà ed una certa resistenza nel coinvolgere altri membri dell’organizzazione, perché manca spesso una massa critica di persone disposte a sostenere l’idea.

Un’altra criticità che si evidenzia è che, nel settore pubblico, il successo dell’innovazione è spesso valutato sulla base di numeri concordati, che possono non riflettere il suo effettivo impatto. Negli ultimi tempi, la consapevolezza dell’importanza dell’innovazione nel settore pubblico sta crescendo, e ci sono organizzazioni che stanno cercando di promuoverla e sostenerla:

Intellera, ad esempio, è nata per cercare di portare innovazione e consulenza finanziaria nel settore pubblico, attraverso l’adozione di una logica più complessa e integrata nella valutazione degli impatti.

A tu per tu con Giancarlo Senatore

L’innovazione nel settore pubblico sembra più limitata rispetto al settore privato. Giusto o sbagliato? Se si, quali possono essere i fattori?

Innovazione intesa in termini di “porto alla macchina pubblica un’idea” si ha nel momento in cui vi sono due condizioni in particolare:

La prima è avere attorno al tavolo persone che hanno voglia di provarci. Purtroppo nel contesto pubblico vi sono pochi incentivi, non di carattere economico.

Bisogna creare la capacità di coinvolgere anche altri pezzi dell’organizzazione. Gli eroi prima o un poi cadono, è la storia della nostra tradizione istituzionale. Quando riesci a creare una massa critica attorno ad un’innovazione non si è da soli, non è un qualcosa voluto dal singolo, ma diventa il prodotto di una sommatoria, si crea dunque un effetto snowball che dunque non può fermarsi.

“Per me questo è un mondo totalmente nuovo rispetto a quello che ho imparato a conoscere nel mio corso di studi. Nel concreto, ad esempio con il vostro intervento nell’ambito turistico, che cosa si è riusciti ad ottenere?”

“L’indicatore di successo per la nostra società è stato il numero di progetti che stanno aderendo e che piano piano hanno aderito alla piattaforma. Noi siamo pagati in parte per la realizzazione della piattaforma, cioè la soluzione informatica che permette alle persone di segnalarsi e associarsi, in parte per il successo sulla base dei numeri concordati. Noi consulenza finanziaria vi aiuteremo a portare a casa almeno 30 strutture alberghiere, almeno 50 start up o simili, come piccole società già strutturate e avviate che però hanno bisogno di sostegno. Tutti i progetti sono quindi valutati sulla base dell’impatto che hanno. Ad esempio, si vuole migliorare la qualità dell’aria. La logica della programmazione ordinaria dei fondi europea era ti pago sulla base del numero di alberi che hai piantato. Dunque la connessione del miglioramento della qualità dell’aria era sulla quantità di alberi piantati, indipendentemente dal tipo d’albero e dove fosse piantato, e si pagava in funzione esclusiva del numero d’alberi. Questo si capisce non essere la soluzione al problema, perché non è funzionale solo il piantare l’albero, ma è anche necessario ottenere un miglioramento della qualità dell’aria attraverso il tipo di albero, dove e come è piantato, e quali altri azioni si mettono in campo per fare in modo che dopo gli alberi si abbia una qualità dell’aria migliore. Oggi, quando si propone con il PNRR, non si richiede la migliore proposta per piantare 100 alberi, ma la migliore proposta per migliorare la qualità dell’aria da x a y nella zona di Milano. Dopodiché i singoli ipotizzeranno soluzioni, come riduzione del traffico urbano, miglioramento del servizio su gomma elettrico. L’insieme di queste azioni porteranno al miglioramento dell’impatto ambientale. Questa è la logica valida per tutti i progetti, quindi anche sul turismo. In conclusione, siamo valutati sulla base della realizzazione di sportelli informativi ecc, e sull’impatto complessivo che otteniamo con l’adesione all’iniziativa”.

Lei ci ha raccontato di come è nata Intellera, io ero curioso di conoscere il perché è nata Intellera, da  chi è nata l’idea?

Una delle motivazioni che ci ha spinti a fondare Intellera è la consapevolezza che abbiamo raggiunto, noi, 14 partner della vecchia PWC.

Tra noi è maturata l’idea che una società di consulenza anglosassone multinazionale profondamente guidata dalle logiche di revisione, se vogliamo dirla così, perché PWC nasce come società di revisione, ha nel core business le cose che vi ho detto e ha laterale tutto il resto. Se il core business è l’audit, collegato all’audit ci sono tutte le operazioni finanziarie eccetera, che sono una parte importante di società come quelle, poi ci sono attività come la consulenza per i soggetti privati, dopodiché arriva la consulenza per il mercato pubblico, perché è la cosa più distante in assoluto dal core business. Allora per tornare alla domanda, la consapevolezza della forza che noi avevamo verso il mercato, in quanto avevamo molti contratti, relazioni, potenzialità con una platea enorme di soggetti, consapevolezza esterna e la consapevolezza interna che dentro l’organizzazione comunque eravamo considerati come distanti dal core business; l’insieme delle due cose ci ha portato a dire “ma perché non ci proviamo? Ma qual è il rischio?” Il rischio è che come consulenti, non saremo apprezzati? Comunque, partivamo con una base già solida. Quando si avviano attività di questo genere un po’ di senso dell’avventura occorre avercelo, perché sennò non ti lanci, ma anche poi avere una base che ti sostiene per un po’, cioè sapere che al peggio non vai proprio l’anno dopo, in mezzo alla strada. Quindi c’erano condizioni interne, condizione esterne, e anche forse la voglia di provarci.

Quando si ha una crescita così ampia come quella di Intellera, da 400 a 1300 persone, come si fa a dare un metodo di lavoro a tutti coloro che arrivano? Ho sentito prima che non è definita una cultura aziendale, immagino ci siano determinate metodologie di lavoro, come si fa a trasmetterle a così tante persone, magari anche alla prima esperienza lavorativa? 

Non vi è l’assenza di una cultura aziendale ma l’assenza di una cultura unica. Se voi entraste in una classica big four, una delle società di consulenza più note, avreste un impatto fortissimo a standard, procedure, gerarchie, regole. Sono società di impostazione anglo-americana, hanno grandi numeri da gestire e quindi definiscono dei percorsi entro cui le persone si adeguano, e più velocemente lo fanno più hanno successo in questi percorsi di carriera: questo è lo standard tipico.

Noi proveniamo da questa impostazione, i 400 iniziali erano PwC a tutti gli effetti, e quella struttura, ai fini del ragionamento legato alla quantità di persone, ha retto bene.

Considerando la domanda, limitandosi a “come si fa ad organizzare queste persone?”, quello lì era il punto forte preso dalla PwC, perchè avevamo già una struttura organizzata, già procedure standardizzate, addirittura sono state adottate le stesse linee guida adottate in precedenza.

Cosa è cambiato? Le linee guida vanno bene per le grandi organizzazioni, ma per le piccole organizzazioni sono molto pesanti e spesso ingabbiano il potenziale delle persone (se sono senior consultant posso o non posso fare delle cose, ecc…), tendono a far pensare alle persone che possono muoversi solo in certi ambiti e non in certi altri.

Aver liberato questo potenziale è stato il passaggio dall’interno di una struttura così forte, pur con delle regole, ad una struttura in cui tutte le culture sono accettate: più della metà delle persone vengono da abitudini organizzative diverse e quindi si è creato un clima positivo dal punto di vista della creatività.

Però l’infrastruttura di base era con una solida impostazione ereditata dalla realtà precedente.

Quindi avete avuto un adeguamento che è partito sia dalla vostra struttura ma anche dalle persone che sono arrivate?

Esattamente. Una delle cose che dico più spesso è che, quello che chiamiamo l’Intellera Spirit, passa molto attraverso il concetto di unlocking potential, cioè liberare il potenziale: le persone non devono essere gravate dal peso della gerarchia, al contrario voglio sapere qual è la proposta, voglio capire cosa posso fare, e, se la proposta è buona, non mi interessa che venga dall’ultimo arrivato e non dal manager o dal director, che magari sono presi da altre cose e si dimentica di valorizzare le persone.

Unlocking the potential è togliere il tappo dalla pentola e da questo vengono fuori cose molto interessanti.

Questo è stato il meccanismo.

Tornando alla domanda non è che non c’erano culture, intendevo che non c’era quella situazione in cui se non hai una regola non parli, c’è un mix di culture diverse con una impostazione di base organizzativa forte.

Come avviene il contatto tra enti grandi e piccoli ed Intellera?

Il contatto commerciale tra enti ed Intellera avviene tramite gare, specialmente per progetti di grandi dimensioni. Al di sotto di una certa cifra, grazie al nuovo codice degli appalti, gli incarichi vengono assegnati direttamente, ma la regola generale rimane quella di fare una gara di appalto. Uno dei punti di forza della nostra società è l’ufficio gare, praticamente un ufficio di progettazione: si concentra tutto il know how della macchina e di volta in volta si prendono persone con competenza specialistica a seconda del progetto. Ad esempio se un ente richiede una consulenza per la trasformazione digitale, richiederà un’offerta, che verrà corredata con tecniche ed approcci utilizzati. Il progetto tecnico per una gara grande è un faldone che contiene lo stato dell’arte di quello che c’è da sapere su quell’ambito. Bisogna concentrare competenze diverse, in analogia a quelle richieste per un lavoro di ingegneria: così come ogni progettista deve avere una conoscenza specifica e deve sapere quali sono i parametri da inserire, ad esempio, all’interno di un capitolato, questo vale anche nel nostro campo, è quello il meccanismo fondamentale. Oggi abbiamo un “magazzino” di gare aggiudicate di circa 350 mln di euro: se smettessimo di acquisire nuovi contratti, lavoreremmo per i prossimi 3 anni sulla base dei contratti già acquisiti. La gara è il momento in cui si fa la migliore elaborazione di un oggetto, è un lavoro molto concettuale, “di testa”.

Collegandoci al discorso del lavoro nel Settore Pubblico come si supera questa reticenza verso l’innovazione e quindi come si convince “la macchina” a cambiare? Per fare un esempio pratico, lo SPID che ha sicuramente rivoluzionato la modalità di accesso a servizi pubblici, ma è stato molto criticato dai cittadini e non solo.

Lo SPID è un esempio molto interessante, è decollato con la pandemia, prima si parlava di 6-7 milioni di italiani con lo SPID, dopo la pandemia si è arrivati a 35 milioni.

Per far sì che le persone adottino questi sistemi devi creare una condizione normativa, per cui un obbligo, ma nel caso dello SPID l’obbligo era già presente pre-COVID e aveva portato solo a 7 milioni di utilizzatori per cui nei primi sette anni di SPID si era a valori minimi. La chiave è invece un evento di discontinuità, è triste da constatare ma l’attuale successo dello SPID lo si deve alla pandemia. Per tornare ad un discorso generale, nel piccolo delle organizzazioni si ha bisogno dei due elementi, quello abilitante normativo e su questo aspetto c’è già un’apertura alle innovazioni, ma è necessario anche creare la discontinuità di processo in modo che si generi un effetto a cascata che induca l’organizzazione a cambiare. Ovviamente va aggiunto che è necessario anche avere un back office capace di gestire il tutto.

 

A cura di:

Francesca Calanca – Gaetano De Rosa – Giuseppe Delli Priscoli – Martina Moscato – Vincenzo Palmieri – Francesca Sammartino